mercoledì 15 aprile 2015

La stanchezza dello scienziato quotidiano

A volte, mi sento proprio stanco.

Non quella stanchezza conseguente ad uno sforzo intenso e denso, che porta con sé la consapevolezza di aver proseguito nel proprio percorso personale, di aver seguito una strada e di vedere che il fitto della foresta si dirada man mano lasciando spazio ad un nuovo panorama da esplorare, aprendo altre possibili strade, altre foreste in lontananza..

E nemmeno quella stanchezza leggera che si percepisce come una presenza costante, un po' benevola e rassicurante, nelle giornate dei weekend primaverili, in cui al risveglio della natura e del metabolismo si affiancano giornate più lunghe, più luminose, e forse la sensazione ancestrale di "avercela fatta" a superare un altro rigido inverno..

No, a volte sento una stanchezza diversa, più inafferrabile, come se fosse lì, ad accompagnarmi, ma non riuscissi bene a capire di che cosa si tratta, che ci sta a fare, da dove viene e che senso darle. Una stanchezza che, lo percepisco di sottofondo, è comunque sempre presente in una certa misura e accompagna le mie giornate.
E non sono l'unico: molte persone che conosco, amici, colleghi, conoscenti, percepiscono la stessa sensazione, declinata in modo differente ma al contempo similare nelle loro vite, nei loro percorsi personali e quotidiani.

Di cosa si tratta quindi?

In un'ottica costruttivista, l'uomo è costantemente impegnato ad elaborare il proprio sistema di costruzione, cioè a verificare continuamente in che direzioni si può sviluppare come persona, a trovare nuovi modi di dare senso a sé e al mondo che osserva e in cui vive, e a verificare se le basi che ha già acquisito, la struttura con cui si è fino a quel momento formato, siano sufficienti e utili a proseguire in questo sviluppo, oppure no.
L'uomo è, insomma, inteso come uno scienziato, che mette costantemente alla prova le proprie teorie sulla realtà, imposta esperimenti ad hoc, ne verifica gli esiti, e rivede di conseguenza le teorie stesse, generandone di nuove di volta in volta o confermando e rafforzando le teorie che si sono rivelate efficaci. Per usare le parole di George Kelly:
"Di nuovo, dobbiamo assumere un punto di vista diverso da quello convenzionale. Infatti, quando parliamo dell'uomo-come-scienziato, ci riferiamo a tutti gli uomini e non solo a coloro i quali sono pubblicamente riconosciuti come scienziati. Consideriamo cioè il genere umano per quegli aspetti che lo rendono simile a uno scienziato, piuttosto che nei suoi aspetti biologici o appetitivi. [...] Possiamo perciò tralasciare l'opposizione fra scienziati e non-scienziati per affermare, invece, che ogni uomo è, a suo modo, uno scienziato."
(Kelly, G. A., The psychology of Personal Constructs, Routledge, London, 1991 - trad. it. La psicologia dei costrutti personali, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2004, p. 2)

Metafora interessante. Ma cosa c'entra con la stanchezza?
Beh, potremmo provare ad immaginare, aiutandoci con la metafora proposta da Kelly, quand'è che uno scienziato sente stanchezza: in particolare quella stanchezza apparentemente senza senso di cui accennavo prima.
Seguendo questa linea di pensiero, mi viene in mente che forse uno scienziato si sente stanco quando non sta facendo quello per cui si considera uno scienziato: non sta sperimentando. Ciò non vuol dire che non faccia esperimenti, tutt'altro..può essere anche lo scienziato che materialmente fa il maggior numero di esperimenti, che ci passa tutte le giornate, senza mai smettere..ma cosa se ne fa di quegli esperimenti che conduce? a cosa gli servono? sta mettendo alla prova qualche propria teoria? o sta semplicemente ripetendo un'azione in continuazione?

Ecco forse si delinea qualcosa..forse anche a me e ad altre persone succede a volte di ripetere in continuazione delle azioni..che faccio per vari motivi (lavoro, contatti sociali, o anche solo per passare il tempo libero), ma che sono, appunto, ripetitive, svuotate di senso, o che non sento che mi portino a sperimentare qualcosa, ma che siano un po' fini a se stesse, o comunque con finalità molto limitate.

Sono incappato in un breve saggio di uno studioso e filosofo sud-coreano ora in Germania, Byung-Chul Han, intitolato "La società della stanchezza" (nottetempo, Roma, 2012), di cui riporto la prefazione alla sesta edizione:
"Il Prometeo stanco 
Il mito di Prometeo si presta ad essere interpretato anche come una rappresentazione dell'apparato psichico dell'odierno soggetto di prestazione, il quale usa violenza a se stesso, fa guerra a se stesso. Il soggetto di prestazione, che s'immagina libero, in realtà è incatenato come Prometeo. L'aquila, la quale si ciba del suo fegato che ogni volta ricresce, è il suo alter ego con cui egli è in guerra. Così inteso, il rapporto tra Prometeo e l'aquila è una relazione con il sé, un rapporto di auto-sfruttamento. Il dolore al fegato, di suo incapace di dolore, è la stanchezza. Prometeo viene colto così, come soggetto di auto-sfruttamento, da una stanchezza senza fine. Egli è l'archetipo della società della stanchezza.
In un racconto estremamente criptico, Prometeo, Kafka offre un'interessante reinterpretazione del mito: "Gli dei si stancarono, le aquile si stancarono, la ferita si richiuse stancamente" (Kafka, F., "Prometeo" in Il messaggio dell'imperatore, trad.it. di A. Rho, Adelphi, Milano 1981, p. 297). Kafka intende, qui, una stanchezza che cura, una stanchezza che non apre ferite ma le chiude. La ferita si richiuse stancamente. Anche il presente saggio culmina nella trattazione di una stanchezza che cura. E' quella stanchezza che non deriva da un riarmo sfrenato, bensì da un cordiale disarmo dell'io."

Mi ha molto colpito, come saggio. Forse la prestazione pura, il fare senza pensiero, il passare il tempo senza approfondire il tempo, sono tutte disposizioni che impediscono all'uomo-come-scienziato di fare lo scienziato (e quindi di essere uomo), di sperimentare il proprio modo di stare al mondo e di vederlo, e lo tengono incatenato alla roccia come Prometeo, destinato ad una ripetitività senza scopo. Forse la stanchezza moderna può trovare senso da questo punto di vista, concependola come una stanchezza per una fatica che viene percepita come ripetitiva, inutile.

Forse per ricominciare a sperimentare ci si deve fermare, disarmare, contemplare..e riscoprire la stanchezza che cura e che appaga.

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