martedì 12 maggio 2015

aspettative deluse

Con i pazienti mi capita molto spesso di affrontare il "problema" delle aspettative.

Aspettative spesso deluse  che comportano sofferenza ed allontanamento dalla fonte deludente.

Mi accorgo di come sia impossibile vivere senza essere proiettati nel futuro e proprio le aspettative ne sono la dimostrazione: come si può agire una qualsiasi scelta senza attendere un risultato desiderabile o meno,  senza cercare di anticipare immaginativamente quello che potrà accadere? impossibile.
Anche le domande nei primi colloqui denotano questa spinta al futuro: <<starò meglio? quanto tempo ci vorrà? dopo quanto tempo avrò dei benefici?>>.
La risposta è quasi sempre la stessa  <<il tempo lo si decide insieme come insieme si sentirà quando le cose stanno cambiando, di certo non sarà un percorso molto breve, ma neppure infinito e soprattutto potrà decidere quando sente di voler interrompere di farlo, meglio se me lo comunica con un po' di anticipo>>.

Mi sono ritrovata a capire, troppo tardi ahimè, che ciò che ci aspettiamo dagli altri e dai noi stessi ci esprime moltissimo.

Il postulato fondamentale dice che "i processi di una persona sono psicologicamente canalizzati dai modi in cui anticipa gli eventi" questo diceva  Kelly (G. A. Kelly, Basic Theory, in The Psycology of Personal Construct, Norton, New York, 1955, vol. 1, cap 2), un po' come se prima di percepire immaginassimo l'andamento delle cose.
Quello che immaginiamo potremmo dire che è la nostra aspettativa e quindi questa canalizzerà i nostri processi di costruzione degli eventi.
Aspettarsi di affrontare egregiamente un lavoro potrebbe esprimere il proprio bisogno di conferma d'essere intelligenti, preparati ed efficienti, l'aspettarsi di essere stimati e ricercati potrebbe esprime il proprio bisogno di sentirsi amabili. Agendo sondiamo il terreno per verificare le nostre ipotesi ed acquisire informazioni per perfezionare il nostro sistema predittivo. Il fallimento in questi casi è tanto più devastante quando più l'essere intelligente, degno di stima o efficiente costituisce la nostra costruzione nucleare.
Per questo se va male proprio dove il rischio di fallimento è più temibile e invalidante spesso succede che ci si impegnerà fortemente anche nell'evitare quelle situazioni!
Potremmo anche pensare di non essere capaci o desiderabili e quindi trovare invalidanti i successi o le attenzioni.
Questa semplicistica digressione ci serve per tornare alle aspettative, quelle di cui vorrei parlare un po' qui per lo meno.
La funzione principale di ogni previsione è la possibilità di muoverci, se non posso minimamente anticipare sono nel caos dell'immobilità.
Un'aspettativa delusa può essere una grande scoperta se riusciamo ad integrare le informazioni che ne derivano al nostro sistema di conoscenza del mondo altrimenti resterà un rammarico e costituirà un limite, un tabù, una vergogna.

Potrei quindi buttarmi nella sperimentazione e testare se le mie ipotesi sul mondo, le mie aspettative sono "buone" oppure no, così riuscirei a fare moltissima esperienza, aumentare la mia conoscenza del mondo e rendere le mie previsioni sempre più accurate. Ma perché non lo faccio? perché non mi butto a kamikaze sempre e comunque?
Proprio lì porrei l'attenzione: le esperienze in cui sento un freno sono la possibile fonte di un'invalidazione profonda e quindi, meglio evitare no?

Certo che è meglio evitare, ma rifletterci per sentire dove ho posto i miei limiti mi dirà moltissimo di me e del mio futuro.


"Avremo voluto, avremo dovuto, avremo potuto. Le parole più dolorose del linguaggio". (Jonathan Coe in I terribili segreti di Maxwell Sim)

mercoledì 15 aprile 2015

La stanchezza dello scienziato quotidiano

A volte, mi sento proprio stanco.

Non quella stanchezza conseguente ad uno sforzo intenso e denso, che porta con sé la consapevolezza di aver proseguito nel proprio percorso personale, di aver seguito una strada e di vedere che il fitto della foresta si dirada man mano lasciando spazio ad un nuovo panorama da esplorare, aprendo altre possibili strade, altre foreste in lontananza..

E nemmeno quella stanchezza leggera che si percepisce come una presenza costante, un po' benevola e rassicurante, nelle giornate dei weekend primaverili, in cui al risveglio della natura e del metabolismo si affiancano giornate più lunghe, più luminose, e forse la sensazione ancestrale di "avercela fatta" a superare un altro rigido inverno..

No, a volte sento una stanchezza diversa, più inafferrabile, come se fosse lì, ad accompagnarmi, ma non riuscissi bene a capire di che cosa si tratta, che ci sta a fare, da dove viene e che senso darle. Una stanchezza che, lo percepisco di sottofondo, è comunque sempre presente in una certa misura e accompagna le mie giornate.
E non sono l'unico: molte persone che conosco, amici, colleghi, conoscenti, percepiscono la stessa sensazione, declinata in modo differente ma al contempo similare nelle loro vite, nei loro percorsi personali e quotidiani.

Di cosa si tratta quindi?

In un'ottica costruttivista, l'uomo è costantemente impegnato ad elaborare il proprio sistema di costruzione, cioè a verificare continuamente in che direzioni si può sviluppare come persona, a trovare nuovi modi di dare senso a sé e al mondo che osserva e in cui vive, e a verificare se le basi che ha già acquisito, la struttura con cui si è fino a quel momento formato, siano sufficienti e utili a proseguire in questo sviluppo, oppure no.
L'uomo è, insomma, inteso come uno scienziato, che mette costantemente alla prova le proprie teorie sulla realtà, imposta esperimenti ad hoc, ne verifica gli esiti, e rivede di conseguenza le teorie stesse, generandone di nuove di volta in volta o confermando e rafforzando le teorie che si sono rivelate efficaci. Per usare le parole di George Kelly:
"Di nuovo, dobbiamo assumere un punto di vista diverso da quello convenzionale. Infatti, quando parliamo dell'uomo-come-scienziato, ci riferiamo a tutti gli uomini e non solo a coloro i quali sono pubblicamente riconosciuti come scienziati. Consideriamo cioè il genere umano per quegli aspetti che lo rendono simile a uno scienziato, piuttosto che nei suoi aspetti biologici o appetitivi. [...] Possiamo perciò tralasciare l'opposizione fra scienziati e non-scienziati per affermare, invece, che ogni uomo è, a suo modo, uno scienziato."
(Kelly, G. A., The psychology of Personal Constructs, Routledge, London, 1991 - trad. it. La psicologia dei costrutti personali, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2004, p. 2)

Metafora interessante. Ma cosa c'entra con la stanchezza?
Beh, potremmo provare ad immaginare, aiutandoci con la metafora proposta da Kelly, quand'è che uno scienziato sente stanchezza: in particolare quella stanchezza apparentemente senza senso di cui accennavo prima.
Seguendo questa linea di pensiero, mi viene in mente che forse uno scienziato si sente stanco quando non sta facendo quello per cui si considera uno scienziato: non sta sperimentando. Ciò non vuol dire che non faccia esperimenti, tutt'altro..può essere anche lo scienziato che materialmente fa il maggior numero di esperimenti, che ci passa tutte le giornate, senza mai smettere..ma cosa se ne fa di quegli esperimenti che conduce? a cosa gli servono? sta mettendo alla prova qualche propria teoria? o sta semplicemente ripetendo un'azione in continuazione?

Ecco forse si delinea qualcosa..forse anche a me e ad altre persone succede a volte di ripetere in continuazione delle azioni..che faccio per vari motivi (lavoro, contatti sociali, o anche solo per passare il tempo libero), ma che sono, appunto, ripetitive, svuotate di senso, o che non sento che mi portino a sperimentare qualcosa, ma che siano un po' fini a se stesse, o comunque con finalità molto limitate.

Sono incappato in un breve saggio di uno studioso e filosofo sud-coreano ora in Germania, Byung-Chul Han, intitolato "La società della stanchezza" (nottetempo, Roma, 2012), di cui riporto la prefazione alla sesta edizione:
"Il Prometeo stanco 
Il mito di Prometeo si presta ad essere interpretato anche come una rappresentazione dell'apparato psichico dell'odierno soggetto di prestazione, il quale usa violenza a se stesso, fa guerra a se stesso. Il soggetto di prestazione, che s'immagina libero, in realtà è incatenato come Prometeo. L'aquila, la quale si ciba del suo fegato che ogni volta ricresce, è il suo alter ego con cui egli è in guerra. Così inteso, il rapporto tra Prometeo e l'aquila è una relazione con il sé, un rapporto di auto-sfruttamento. Il dolore al fegato, di suo incapace di dolore, è la stanchezza. Prometeo viene colto così, come soggetto di auto-sfruttamento, da una stanchezza senza fine. Egli è l'archetipo della società della stanchezza.
In un racconto estremamente criptico, Prometeo, Kafka offre un'interessante reinterpretazione del mito: "Gli dei si stancarono, le aquile si stancarono, la ferita si richiuse stancamente" (Kafka, F., "Prometeo" in Il messaggio dell'imperatore, trad.it. di A. Rho, Adelphi, Milano 1981, p. 297). Kafka intende, qui, una stanchezza che cura, una stanchezza che non apre ferite ma le chiude. La ferita si richiuse stancamente. Anche il presente saggio culmina nella trattazione di una stanchezza che cura. E' quella stanchezza che non deriva da un riarmo sfrenato, bensì da un cordiale disarmo dell'io."

Mi ha molto colpito, come saggio. Forse la prestazione pura, il fare senza pensiero, il passare il tempo senza approfondire il tempo, sono tutte disposizioni che impediscono all'uomo-come-scienziato di fare lo scienziato (e quindi di essere uomo), di sperimentare il proprio modo di stare al mondo e di vederlo, e lo tengono incatenato alla roccia come Prometeo, destinato ad una ripetitività senza scopo. Forse la stanchezza moderna può trovare senso da questo punto di vista, concependola come una stanchezza per una fatica che viene percepita come ripetitiva, inutile.

Forse per ricominciare a sperimentare ci si deve fermare, disarmare, contemplare..e riscoprire la stanchezza che cura e che appaga.

sabato 28 febbraio 2015

comunicare non basta

Secondo il primo  assioma della comunicazione " È impossibile non comunicare. In qualsiasi tipo di interazione tra persone, anche il semplice guardarsi negli occhi, si sta comunicando sempre qualche cosa all'altro soggetto". (Watzlawick, P., Beavin, J.H., Jackson, D.D. in Pragmatica della comunicazione umana). E allora perché spesso si ha la percezione di non riuscire a farlo?
<<non riesco a comunicare con i miei genitori>>
<<comunicare con te è impossibile!>>
<<con il mio capo non riesco proprio a comunicare>> 

Credo si debba fare un po' d'attenzione: il comunicare non implica la comprensione di quello che diciamo, può essere un tentativo di esprimersi nel desiderio di essere successivamente compresi. Più informazioni si danno al nostro interlocutore più egli riuscirà a scorgere il significato delle nostre parole nei nostri termini. Il significato delle nostre parole tuttavia non è  sovrapponibile a quello degli altri pertanto quando parliamo con qualcuno dovremmo fare attenzione ai significati dell'altro. 
Stessa cosa vale per i silenzi.
Trascorrere del tempo  insieme può essere un vantaggio quando ci permette di creare significati condivisi grazie alle esperienze vissute e co-costruite. Capire a colpo d'occhio un nostro intimo, comprendere il suo senso  è un'aspirazione e al tempo stesso un rischio perché il pensiero implicito è sempre in agguato pronto a trovare una logica sottesa basata sui nostri costrutti.

Pensando a questo anni fa sono piombata nel dubbio di non riuscire a farmi comprendere e di non poter mai  "afferrare" qualcuno. Così mi son data da fare e  sono andata a curiosare ad incontri e convegni di tutti gli orientamenti, mi sono confrontata con vari colleghi e con le posizioni dei filosofi sulla possibilità dell'esistenza o meno di un mondo che si possa definire "vero" passando dai rassicuranti pensieri dei realisti all'idealismo più radicale. Ma nessuna posizione riusciva a convincermi, nessuna riusciva ad essere coerente fino in fondo. 
Poi ho scoperto George Kelly e guardando il mondo attraverso la lente della sua teoria la mia ricerca ha assunto finalmente senso.
Ora penso che comunicare non basti. Il desiderio di comprenderci non è un lusso ma un’ambizione che possiamo perseguire iniziando con il far attenzione ad alcune piccole cose:
La prima è di sicuro "non dare per scontato che quello che  l'altro dice abbia un'unica "vera" interpretazione, che poi, diciamocelo francamente, sarebbe la nostra! 
Un'altra grossa mano ce la da il Chiedere, Chiedere e Chiedere, in questo modo non solo eviteremo il rischio di raccontarci una storia privata in cui l'altro è totalmente assente ma, cosa ancora più sorprendente, scopriremo l'altro, il suo mondo di significati e riusciremo ad avvicinarci.
Al terzo posto del podio metterei l'essere sempre curiosi di scoprire quanti mondi possibili esistono guardando con gli occhi degli altri, questo ci permetterà di non essere sopraffatti dalle differenze,  ma di rimanerne affascinati

« Solo gli imbecilli non hanno dubbi.
Ne sei sicuro? Non ho alcun dubbio! »
(Luciano De CrescenzoIl Dubbio)